I fenomeni afferenti alla devianza giovanile, nel corso degli ultimi anni, hanno assunto livelli preoccupanti anche in Italia. Gli adolescenti, fortunatamente non tutti, rischiano di essere inquadrati in un’ottica facilmente indotta alla degenerazione privando ogni singola possibilità  di rivalsa futura per quanti si troveranno a compiere reati.

Proviamo ad immaginare il prosieguo di quanti sono stati interessati, anche per una sola volta, direttamente o indirettamente, a fenomeni di tensione, siano essi studenti puniti per atti di bullismo o per reati afferenti alla micro-criminalità? In tali casi potremo notare come una consolidata prassi sociale, resa viva soprattutto nei piccoli centri urbani o in comunità ristrette,  tenderà a condannare il responsabile di un gesto non per il singolo caso ma in maniera definitiva, assegnando il peso di quella responsabilità per tutta la vita e non soltanto per la singola occasione.  Quindi, una sbornia il sabato sera conseguirà l’essere additato come alcolizzato, il violento sarà per tutta la vita violento. Non è così. Lo sappiamo benissimo. A tal proposito è bene chiarire una serie di concetti affinché possa emergere una maggiore chiarezza nella discussione, evitando di cadere in luoghi comuni ed aiutando quanti fossero interessati a partecipare seriamente al dibattito di poter avere una visione più chiara del tema posto in essere approcciandosi a ciò che afferisce al complesso mondo delle “devianze” senza pregiudizio e tendendo ad inquadrare il fenomeno all’interno di un ambito ben definito dal quale ci si può anche affrancare dopo una opportuna fase di riabilitazione.

In tal guisa è fondamentale  comprendere la quantità e la qualità di danno producibile quando si aziona il facile e gratuito modello del “pregiudizio” o dell’etichetta sociale. Questi sono modelli largamente praticati e diffusi in ogni segmento collettivo per catalogare una persona all’interno di un’apposita struttura di riferimento. In questa sede vorrei sottolineare quanto sia deleterio per il futuro della persona il pregiudizio collettivo. Percorrendo questa strada, sono numerose ed autorevoli le ricerche sviluppate in tal senso. Prendiamo in esempio quanto sviluppato da Sandro Segre, nel volume “La devianza giovanile, cause sociali e politiche di prevenzione”. Lo studioso ha più volte affrontato l’argomento fornendo spunti di notevole rilevanza. Quelle indicazioni andrebbero applicate alla realtà con maggiore frequenza e soprattutto con  coraggio. Andrebbero studiate, approfondite e divulgate altrimenti rimarranno per sempre teorie riportate in un libro e la società sarà sempre più in decadenza perché privata dal senso e dall’importanza dei valori umani. Nello studio in questione, il soggetto “deviante” viene identificato dalla società e condannato alla marginalità tramite il più semplice dei modi: il passaparola. In questi casi, la qualità dei rapporti sociali e il concetto di fiducia vengono immediatamente a mancare e, perciò, non sarà più consentito al soggetto interessato un normale reinserimento nel contesto di riferimento. Tutto ciò,  spesse volte, diviene vera e propria causa di ulteriori degenerazioni: si passa della già precaria condizione di vita vissuta dal “condannato sociale” alla reiterazione del reato, aggravando di volta in volta la gravità del reato e riducendo il grado di libertà.  Questa è la fase più cruenta per chi ha commesso un reato e non ha goduto della riabilitazione sociale. Il vuoto creatosi intorno, le costante degenerazione e tutte le conseguenze rese evidenti, conferiscono forza alle “pene accessorie” comminate dal giudizio sociale. Seppur queste ultime prive di fondamento giuridico, sono colme di quel consenso oggi reso immortale grazie alla pervasività dei social network, dalla rete internet e dal consolidato metodo del passaparola.

Passiamo adesso ad esaminare un caso specifico. All’atto dell’arresto di una persona viene data la notizia dai media, parte la gogna mediatica, vengono offerte immagini relative all’azione degli organi preposti. Ci sarà poi un processo e, nel caso di colpevolezza, seguirà la condanna da scontare secondo le norme previste dall’ordinamento giuridico. Sarà perciò inevitabile porre l’attenzione al caso da parte della collettività. Saranno inevitabili anche i giudizi, sempre più rapidi e sempre piùs pesanti. Questo rituale di passaggio, non verrà reiterato all’atto della conclusione del periodo detentivo della persona interessata invertendo di fatto la polarità di giudizio emessa all’atto dell’arresto. Nessuno, tranne i familiari, verrà messo a conoscenza del percorso di riabilitazione praticato da quella persona. Durante il periodo di reclusione, il detenuto avrà potuto conseguire un titolo di studio; avrà potuto imparare una professione; avrà compreso la gravità del fatto compiuto grazie all’effetto rieducativo della pena. Potrà essere una persona migliore e potrà essere utile alla società. In assenza di un rituale di  reintroduzione all’interno del tessuto sociale, persisterà il peso e lo sguardo carico di pregiudizio nei confronti di chi avrà potuto anche riabilitarsi dopo aver scontato la pena inflitta dal giudice. Quella persona, giorno dopo giorno, si renderà conto di non essere accettata all’interno della comunità in cui dovrà vivere. La solitudine, l’isolamento e la diffidenza potrebbero indurre la persona interessata a questa pena accessoria di avvertire e soffrire il peso dell’esclusione sociale. Durante questa fase sono stati registrati casi nei quali si diffondeva l’uso  di alcol, droga o altre dipendenze per il solo piacere di cercare l’autorealizzazione non riscontrata attraverso l’accettazione della comunità. Questa ennesima scelta diverrà l’ulteriore aggravamento rendendo il tunnel sempre più buio.

Purtroppo a fare scandalo oggi non è soltanto il fenomeno della devianza ma il contorno che la alimenta nel silenzio, nella diffidenza e nella capacità di estendere la condanna ad ogni gesto ed ogni azione. Queste conseguenze contribuiscono a far perdere lo schema di riferimento al diretto interessato incidendo sul piano del funzionamento mentale. Per intenderci, quello che Piaget ha definito pensiero concreto diviene ora astratto. Il diretto interessato comincia a “ragionare” di testa sua, non accetta più ciò che viene detto per presa di posizione, vuole sbattere la testa da solo, non vuole più essere la copia di altri, non ascolta più i familiari. Si è perso. Allo smarrimento si aggiungerà ansia ed insicurezza e da questi malesseri la persona sola si difenderà con i modi più svariati: potranno esserci fenomeni di degenerazione e a violenza o chiusura all’interno di un gruppo di pari in modo tale da isolarsi e poter sfuggire al controllo dal sistema educativo, intento a contenere quel malessere con la forza e non con la ragione.

Oggi la società non è più stabile. Ha acquisito elevati livelli di complessità destinati ad essere sempre crescenti.  L’avvio di un processo di globalizzazione estrema,  l’esasperazione delle opportunità, la velocità della comunicazione e le innumerevoli aspettative hanno attentato al senso dei valori dalla vita degli individui.  Ogni fenomeno sociale non è più destinato ad essere contenuto ma diviene causa destinata ad alimentare lo specifico senso di vuoto destinato ad indurre soprattutto i più giovani a non sentirsi più parte di un progetto e quindi autorizzati a stare fuori da quel segmento con atteggiamenti devianti. La degenerazione del sistema in cui oggi viviamo produce crescente ipocrisia, opportunismo e penuria di valori, sbandierati soltanto all’occasione e non praticati per scelta. Assistiamo poi alle crescenti condanne per lo spinello e contemporaneamente apprendiamo l’incremento di vendite di psicofarmaci, destinati a far calmare i bambini più monelli; si condanna l’uso sfrenato di cellulari e tablet e poi per far consumare un pasto  un ad un bambino si lascia in mano il tablet per la visione dei cartoni. Si finisce per dire sempre si perché i no generano incubi, paure, litigi.

Ora più che mai bisogna lavorare per una società che sappia guardarsi dentro. E’ necessario credere in una società intenzionata a lavorare e riportare al centro delle singole scelte la persona, nessuno dovrà essere escluso, nessuno dovrà rimanere indietro. La società non dovrà più scandalizzarsi per le devianze giovanili chiudendosi in se stessa, ma sarà necessario pensare un modello dedito a realizzare un progetto inclusivo, capace di superare la difficile fase vissuta tanto nelle grandi città quanto nei piccoli centri urbani. Per fare ciò sono necessarie idee e non slogan.

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